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London Marathon, 28 Aprile 2019

Tratto dal blog: Una vita da runner, di Kostia Rossi

No, non ci avrei mai scommesso ad un mio ritorno alla distanza regina, ma il destino ha deciso che la più improbabile delle casistiche (“tornerò a correre una Maratona quando mi estrarranno al Ballot di Londra”) si concretizzasse, lasciandomi poca scelta sulla decisione da prendere.

La preparazione studiata da coach Andrea è andata molto bene, sia sul piano fisico che su quello psicologico, che era l’aspetto che più mi spaventava all’inizio. Un mix equilibrato di velocità e resistenza che oltre ad avermi accompagnato alla gara, mi ha permesso di passare i 4 mesi di allenamenti arrivando raramente in situazioni di carico eccessivo, divertendomi e chiudendo positivamente i test domenicali sulla lunga distanza.

Arrivo al giorno della gara come meglio avrei voluto: l’influenza della penultima settimana smaltita completamente, il picco di allergia primaverile svanito una volta che mi sono ambientato al clima Londinese, mentre dell’infiammazione al fianco destro ho solo un vago ricordo sbiadito. Come previsto, il giorno della gara le gambe non sono propriamente riposate, come risultato delle sfacchinate per ritiro pettorali, gita a Windsor e visita del Parlamento nei giorni precedenti. Devo però aggiungere che al via della gara, e durante la stessa, tutto questo non si è fatto minimamente sentire.

 

Correre una Major, si sa, non è semplice anche per via della logistica. Devo uscire di casa 3 ore prima della partenza, raggiungere la Metropolitana e poi prendere il treno. Già arrivato a Belsize Park, la stazione dell’underground più vicina all’appartamento, respiro l’aria del grande evento. La città è silenziosa, ma è la classica situazione da quiete prima della tempesta (anche se in questo caso sarebbe meglio dire “della festa”), e gli addetti ai tornelli di accesso ti sorridono ed incitano quando mostri loro il pettorale per accedere gratuitamente ai treni. La mia fermata è lontana dal caos, saliamo sulla carrozza in 3 (ovviamente tutti Maratoneti) ed iniziamo a parlare tra noi di quello che ci aspetta. Nel giro di poche fermate saliranno sempre più persone, fino allo smistamento previsto a London Bridge Station, dove nella sala centrale sono stati addirittura allestiti dei punti raccolta differenziati per area di partenza (la gara ha 4 starting zone diverse), per indirizzare le persone nella giusta direzione. E da qui che comincio a capire che l’organizzazione è veramente di altissimo livello. Salgo sul mio treno diretto a Blackheat, che raggiungerò circa 10 minuti dopo, sorprendendomi nel trovare sulla banchina della stazione una serie di tavoli con banane a disposizione per tutti. Qui dopo qualche minuto di attesa riesco a trovarmi con Nico, nonostante qualche peripezia causata da un “sono a fianco dell’uomo vestito da ananas”, per scoprire che c’erano almeno 5-6 persone vestite in quel modo…

Ci dirigiamo verso la Blue Zone, che è la nostra partenza. A prima vista sembra di arrivare in un’area concerti vastissima: un prato enorme, con un tendone centrale per cambiarsi (e ripararsi dal freddo, vista la temperatura non proprio clemente) e i camion per il deposito borse. Dopo esserci preparati per la gara e coperti accuratamente con una tuta da imbianchino della linea moda primavera-estate 2019, riusciamo ad incrociare Gaetano (6 Major per lui, solo applausi!) per una foto e dirigerci in griglia. I 25 minuti che ci separano dallo start scorrono velocemente, ridiamo e scherziamo e passiamo sotto il via 10 minuti dopo lo sparo, constatando che Mo Farah sarà già stato ben oltre il km 3.

 

I primi 10km: “Humps!” e Cutty Sark – Dopo aver superato la linea di partenza io e Nico riusciamo a correre subito senza troppo traffico. Il tempo di richiamare l’applauso del pubblico per un paio di volte, e Nico si stacca da me, perchè il suo ritmo gara è più prudente del mio. Rimasto “solo”, inizio ad immergermi nel clima di gara: intorno a me c’è una festa, sin dai primi metri ci sono centinaia di persone ammassate ai lati della strada, che non smettono mai di incitare. Le gambe sono reattive e non affaticate, galvanizzato dalla situazione rispondo ad ogni incoraggiamento, al punto che gli addetti (2 per ogni dosso) che urlano a distanza di pochi secondi “Humps!” per avvertirci del pericolo sembrano quasi messi lì per dare il ritmo alla corsa. Al Km 7 passiamo per Cutty Sark: una curva a U in corrispondenza del veliero trasforma il percorso in un’arena da stadio, con un tifo assordante che manda in secondo piano le difficoltà causate dal restringimento di carreggiata, stretto al punto di costringermi addirittura a camminare per qualche metro.

Dal 10° alla mezza: Pit-Stop e Tower Bridge – L’unica nota dolente di questa prima parte di gara è data dal mio stomaco. Ogni 10 minuti circa, sento delle fitte addominali che durano una trentina di secondi. Situazione capitata un paio di volte durante gli allenamenti degli ultimi mesi e che quindi conosco bene. In aggiunta, l’acqua bevuta prima del via, unita alla temperatura di giornata, presenta inevitabilmente il conto così, dopo un paio di Toilet zone superate per studiarne l’utilizzo cronometrico migliore, al Km 13 riesco a mettere a fuoco un bagno libero e fiondarmi all’interno. Nonostante tutto, l’operazione mi costa circa 1 minuto di tempo. Per rimettermi in ritmo spingo maggiormente per qualche chilometro, prima di arrivare alla svolta a destra del Km 20, che apre la visuale sul maestoso Tower Bridge, invisibile al percorso di gara fino a quel punto. L’emozione è forte, la gente tantissima. Quasi rallento per godermi meglio quel passaggio, unico nel suo genere. La sorpresa finale arriva all’uscita dal ponte: 300 metri dopo c’è l’ultimo tratto del senso alternato di gara, e davanti a me si palesa Mo Farah con la sua splendida azione di corsa. Questione di pochi secondi, a l’avrei mancato.

 

Dalla mezza al 30°: Canary Wharf – Passo a metà gara sotto l’ora e 41, in linea con le previsioni di ritmo. I dolori addominali persistono e ormai ho capito che me li dovrò portare fino al traguardo. Nonostante la fatica supplementare riesco a tenere bene il passo, mentre siamo sul rettilineo che porta a Canary Wharf. Anche su questo tratto non manca il tifo, tantissime persone che danno il “5”, grandi e piccini. Alcuni bambini offrono caramelle gommose, altri improvvisano ristori aggiuntivi allungando bottiglie d’acqua ed integratori. L’atmosfera è speciale, per alcuni momenti sembra quasi che la Maratona la stessimo correndo tutti insieme, pubblico e concorrenti. Arrivati a Canary Wharf ci immettiamo nel tratto più nervoso della gara, tra tunnel e svolte continue. I grattacieli alti tolgono luce e abbassano la temperatura, torno ad alzare i manicotti per coprire le braccia, dopo averli abbassati 20 km prima. Verso il 28° sento un indurimento all’altezza del vasto laterale, da entrambi i lati. Al momento ci faccio poco caso, perchè è un punto dove in precedenza non ho mai avuto problemi di nessun tipo, invece con il passare dei minuti questa situazione peggiora e limita pesantemente la mia azione di corsa, oltre che il passo di gara.

Dal 30° al Traguardo – Stringo i denti rallentando per qualche km. Sono parzialmente rinfrancato dai passaggi cronometrici che rilevo ai cartelli, dato che il fido Race Screen dell’orologio mi restituisce ancora una buona proiezione a 3h24, non distante dal braccialetto che indosso sul posto opposto, che indica i passaggi per chiudere in 3h25. Nel lunghissimo rettilineo che mi separa dal traguardo cerco di godermi l’ultima ora della festa: ai lati i cartelli di incoraggiamento (da segnalare i migliori con: “you’re doing better than our government”, “if Trump can run America, you can do this one” oppure quelli dei bambini con “tap here to gain more power”), mentre tra il percorso di gara non è raro trovare i costumi più improbabili, tra i quali spiccano un rinoceronte e un Big-Ben-Man. Potere delle Charity, vero cuore pulsante della London Marathon.  Transito al Km 37 in 3 ore esatte, e da lì in poi ad aiutarmi sarà solamente la testa. Il tempo fino a quel punto è letteralmente volato, tra l’alternanza dei cartelli chilometrici e quelli del sistema imperiale non mi sono reso nemmeno conto di quanta strada avessi già fatto. Gli ultimi 5Km sono fisicamente molto probanti, ma la mia testa, stranamente visti i miei precedenti, non molla. La distanza mancante non la sento come un problema, so che gli allenamenti che ho fatto mi porteranno in fondo senza crollare o dovermi fermare, il tutto confermato da una frequenza cardiaca mai in difficoltà per tutta la gara. Dal 38° Km entro nella zona di Westminster: il mio pensiero principale e quello di riuscire a vedere Francesca e Lara tra la folla. La situazione muscolare non mi permette troppi spostamenti laterali sulla carreggiata, quindi gioco il jolly spostandomi sulla destra e sperando di trovarle da quel lato. Ad un Km dal traguardo svoltiamo, lasciandoci il Tamigi a sinistra, in corrispondenza del Parlamento, visitato 24h prima. Subito dopo la curva, riesco a vedere le mie due donne a lato, mi disinteresso completamente della gara e vado verso di loro per salutarle ed abbracciarle. Dopo qualche secondo di stop riparto ed affronto gli ultimi metri di percorso, scanditi da cartelli ogni 200m. A 600 dal traguardo rivivo la sensazione provata in precedenza sul Tower Bridge: rallento leggermente, sento che la festa sta per finire ma, nonostante sia fisicamente provato, voglio che duri il più possibile. Si gira verso Buckingham Palace, mi affianco ad un runner per fare comparsa nel suo video, dato che sta filmando i suoi ultimi metri inquadrandosi con la Go-Pro, e giro sul Mall per i 200 finali. Il tempo di prendere la bandana sociale e di alzarla, ed il traguardo è subito lì. Scoppio a piangere, scarico la tensione e l’overdose di emozioni concentrate in così poco tempo. Anche a gara finita gli addetti continuano ad incitare, “you did it!” esclamano mentre ti mettono la medaglia al collo.



Qualche secondo dopo mi giro e vedo Nico. Incredibile come ci siamo ritrovati 3 ore e 29 minuti dopo esserci lasciati, in mezzo a così tanta gente, senza darci appuntamento.
Il tempo per me di una pausa al bagno (che sarà solamente la prima di una due giorni di recupero abbastanza complessa a livello di stomaco) per ritrovare anche Stefano, e scattare la foto di rito dei cadaveri con la medaglia al collo. Anche questa volta, ce l’abbiamo fatta!

 

Ora posso dire con certezza che finire una Maratona è soddisfacente, ma finire una Major è uno step ulteriore!